sabato 23 marzo 2013

Nero Lutto - Superstizioni, comportamenti e rituali di fronte la morte - Personale fotografica di Fabio Petrelli

Nero Lutto
 
Superstizioni, comportamenti e rituali di

fronte la morte


Personale fotografica di Fabio Petrelli



Si inaugurerà martedì 26 marzo 2013 a Massafra (Ta), presso l’ex chiesa di Sant’ Agostino, alle ore 18.30, la personale di fotografia di Fabio Petrelli, artista massafrese da anni residente a Roma. L’artista propone una serie di scatti fotografici di grande formato sul tema del nero come simbolizzazione del lutto. Petrelli mette in scena un repertorio che dall’antropologia culturale che affonda le radici negli studi etnologi di E. De Martino, si riverbera nell’universo archetipico dell’arte contemporanea, dove la morte intesa come sospensione del tempo-non tempo, viene a essere codificata entro comportamenti e rituali di arcaiche radici che ancor oggi sono inglobate nei modelli socio-culturali del sud Italia. Petrelli afferma che: “nera è l’assenza profonda e luttuosa del non esserci più, di quel grido soffocato dei superstiti che piangono e gridano i loro morti. Neri gli scialli dalla lunga trama che coprono gli specchi del dolore, perché il morto non si possa riflettere e lo specchio non catturi il riflesso che invece è destinato a raggiungere l’aldilà. Così lo specchio come spazio eterotopico (Foucault) diviene duplicatore di quell’universo impalpabile dove si invertono la destra e la sinistra e viene sottoposto al mondo uno spazio che non è.”
L’esposizione che si inserisce tra le attività del progetto CoinvolgiMenti, curato da MassafrArte, e promossa dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Massfra, verrà presentata e curata nel suo assetto critico e metodologico dalla giornalista della Gazzetta del Mezzogiorno, Maria Grazia Rongo e inoltre vi sarà un importante intervento critico sul catalogo della Dott.ssa Daniela Fabrizi (Membro Onorario della Soc. Intern. Des Critiques Littéraires).
La mostra dal titolo Nero Lutto - Superstizioni, comportamenti e rituali di fronte la morte, nel cuore del centro storico di Massafra, resterà aperta al pubblico fino al 31 Marzo 2012, dalle 17 alle 20. L’ingresso è gratuito.




Approfondimenti Nero Lutto:
Stendalì suonano ancora
Documentario di Cecilia Mangini sulle prefiche del Sud e i loro canti nel salentino di cultura greca davanti al morto.
Testi di Pier Paolo Pasolini



presentazione mostra: Fabio Petrelli e Maria Grazia Rongo
 
 
 
 
Il nero: l’anima del dolore
Il nero traccia confini instabili del mondo. Una lettura dell’essenza dolorosa che Fabio Petrelli offre nelle immagini che compongono la mostra, dove il dolore non è mai fermo, si muove, deve sprigionare la forza lacerante che mortifica gli uomini dentro. Ecco perché i contorni dei soggetti fotografati molto spesso qui perdono la loro dimensione reale, e appaiono come sospesi, scarnificati, guidati da una instabilità involontaria, traballanti, tra la necessità di rimanere ancorati alla terra, di sopravvivere, e la tendenza a lasciarsi andare, in un dove sconosciuto, ma in ogni caso lontano. E le fotografie ci vengono incontro fino a trovare i nostri occhi e condividere il colore e il dolore.  
Fabio Petrelli in queste immagini cattura l’anima del dolore, restituendole il colore del nero, del lutto che vuole trovare la giustificazione di un’assenza che, in maniera ossimorica, si fa presenza, forte. Un nero che viene da lontano, e scava nelle radici di tradizioni arcaiche che al tempo stesso fondano uno sguardo contemporaneo, fermando il tempo e realizzando l’ancestrale contrappunto tra vita e morte, finitezza ed eternità, assolutezza e relatività.
Lodevole è poi la ricerca che sottende ad ogni lavoro di Petrelli. Lo studio che diventa motivazione e guida nella creazione dell’artista, realizzando così una riconoscibilità delle opere e contribuendo alla creazione di un percorso che si inquadra in una crescita artistica costante. Una ricerca che parte dal Sud delle storie e dei luoghi, come dimostrano le file di donne in processione tra muretti bianchi di calce, la Mater Dolorosa, i rituali antichi, dove il dolore è donna e il nero diventa il colore di vedove, madri private dei figli, orfane. E poi il richiamo alle immagine votive, soffuse, colpite da un’iconoclastia motivata dall’essere quasi un appiglio al quale è difficile rimanere aggrappati, perché si tratta di un groviglio inaccessibile e dalla forza inestricabile, ma che appare quale l’unica possibilità di confidare l’angoscia di un presente che è divenuto niente. L’abilità dell’artista sta nella capacità di farsi tramite invisibile, ponte tra emotività distanti e contrastanti. “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” scriveva Cesare Pavese nel 1950 (pubblicazione postuma a cura di Giulio Einaudi nel 1951), gli occhi neri, come il dolore che grida, muto, come il vuoto che si riempie di assenza.             
 
Maria Grazia Rongo
gionalista Gazzetta del Mezzogiorno 

 

Il lutto: il buio nero dell’eterno
Bianco il lume…, bianco il lenzuolo…, bianco il muro di calce…, il chiarore di candele.
Senza il bianco, il nero non esisterebbe, sarebbe solamente buio etereo, inverno senza fine.
Il lutto è una condizione, una scelta di filiazione partorita altrove con diritto di vestire il dolore con il nero integrale, segno che non c’è posto per altro quando l’assenza diventa partenza dal quotidiano mondo.Fabio Petrelli disvela una passione di studi e di dimora sulla continuazione della morte quando questa è disgiunta dalla vita ma non è perduta, e richiama l’affollarsi dell’umanità che è stata ed ora abita più alta e sconosciuta contrada. Il lutto è una convinzione, un mondo, un figlio, lo si porta dentro, lo si veste di panno che non riflette, che non permette il passaggio obbligato del giorno e della notte. Non è assenza di colori, poiché li assorbe per farne fiori secretati, deputati solo ai destinatari di un ossequio cieco nell’altrove immaginato. Nelle fotografie di Petrelli, l’archetipo del lutto si estrinseca a partire dall’assenza, con il lume di assoluto bianco in primo piano che non si riflette sul vassoio scuro, segno di un’anima già in volo ma non priva di materia, avendo ancora strada appesa alla durata della luce bianca della luminaria. Questo perché la morte ha un tempo straordinario che non coincide con la fine delle attività del corpo, ma consente alla mente di vagare, per un tempo illimitato, in cerca del suo posto nutrito dal ricordo.
Il lutto è una sospensione temporale che permette agli affetti di colmare il vuoto ed i suoi effetti, di rimettere a posto i numeri imperfetti cui si giunge sottraendo la presenza dei coscritti.
In questa attesa di ricostruzione, i capelli sul lenzuolo diventano grovigli di serpenti che rapinano spazi bianchi, definendo rivoli indipendenti che puntano al viaggio verso altri mondi.
Il muro di calce accecante sorregge un lutto che appartiene a ciò che rimane ai vivi, incanalandoli, quasi in processione, verso un funerale che è sintesi del dolore universale che, se collettivo, assume il ruolo di catena di personificazione del viaggio del morto verso il segreto del buio senza speranza di risorto. Per questo una candela, in fondo a un corteo breve vestito di dolore, rammenta ai dolenti la via del ritorno più che indicare un sentiero oscuro, ignoto a tutti oltre la sepoltura e la dipartita del morto.
È questo il lutto, il buio nero dell’eterno che non è concesso al mondo. Il rifiuto del colore conduce alla divisa del dolore che vuole essere riconosciuta e forse consacrata con l’accettazione dell’impossibilità di conoscere altra vita.

Per Fabio Petrelli è chiaro come la morte faccia parte della vita ben più della sorte, e il fantoccio, che in tanti luoghi la esorcizza, diviene immagine sfumata, non meno impressionante, ma mossa, ad indicarne l’impalpabilità dell’avvento e l’epifania dell’evento. Nella tradizione popolare, bruciare il fantoccio dalle fattezze di una fattucchiera, di una raccapricciante figura femminile nera, richiama rituali consolatori e di vittoria che, seppur brevi, regalano illusioni ai viventi, riscattando attimi di vincitori nella lotta quotidiana dei semiresidenti.
Questo perfettamente rimanda con i suoi scatti Petrelli: la caducità dei presenti e l’ineluttabilità per questi di fare con la morte i propri conti. Non c’è drammaticità di disperazione, ma autentica delucidazione su ciò che si dimentica ogni giorno con superiore orgoglio: la morte non è punizione, ma l’altra faccia della vita, e il nostro esserci è una sfida.
I volti lividi di donne vestite di lutti di capelli, ancor più che di panni, appaiono ritratti silenziosi detentori di gridi riservati a mitiche figure rituali atte alla pratica del pianto di accompagnamento del morto prima che sia sepolto. Prefiche moderne, mai stanche di perpetuare lamenti indotti dalle pratiche antiche del culto dei morti. Il Sud sembra detentore del passaggio nell’altrove col perpetrarsi di usanze primordiali che eleggono il lutto a condizione, a traduzione collettiva del dolore.
Petrelli sa bene che senza il bianco di contrasto la morte non sarebbe che buio difficile da rendere immortale su carta di stampa, sia essa analogica o digitale, ma ne fa un uso moderato, parsimonioso, perché non prevalga, ma rimanga monito di assoluto.
La ritualizzazione del dolore aiuta chi lo soffre ad essere migliore, nella convinzione di condividere una sorta di purificazione che dal buio porterà alla luce.
Il valore di questo lavoro di ritratto è nel movimento del concreto e dell’astratto, nell’attimo colto nel suo cambiamento, nella forza del segno, nella volontà di presagire il distacco come eterno congiungimento del lutto con l’apparente spegnimento dell’intelletto, salvato dal miracolo del lume acceso del ricordo contro cui nulla può il mantello nero che tinge il tavolo di scuro.
 
Daniela Fabrizi
Membro Onorario della Soc. Intern. Des Critiques Littéraires
 

 
Nero Lutto
superstizioni, comportamenti e rituali di fronte la morte
Nera è l’assenza profonda e luttuosa del non esserci più, di quel grido soffocato dei superstiti che piangono e gridano i loro morti. Neri gli scialli dalla lunga trama che coprono gli specchi del dolore, perché il morto non si possa riflettere e lo specchio non catturi il riflesso che invece è destinato a raggiungere l’aldilà.  Così lo specchio come spazio eterotopico (Foucault) diviene duplicatore di quell’universo impalpabile dove si invertono la destra e la sinistra e viene sottoposto al mondo uno spazio che non è.
Nera è la morte che viene identificata con l’inverno, con la Vecia, con la Stria o con la Quarantana pugliese dove un bamboccio di pezza raffigurante una vecchia avvizzita, viene bruciata nell’oscurità delle notti invernali, stereotipizzazione del male nell’eterno ciclo  di vita-morte-vita. Per cui la dimensione ludica consente di immergere la vita nella funzione della morte per farla riemergere come vita affermata.
Nero è il colore del lutto, che oggi ancora nelle regioni mediterranee, dove persistono le più antiche usanze, le donne si vestono in nero, colore che allude alla Grande Madre arcaica. Perché il grembo della grande madre è nero e perennemente genera e accoglie in sé ogni essere vivente  Per la stessa ragione le Dee madri della civiltà mediterranea, che continuamente generavano e accoglievano in sé gli esseri nell’eterno ciclo di nascite e morti, erano raffigurate nere: come l’egizia Iside, la Vergine Nera. 
Nera è la lunga veste del simulacro della Mater Dolorosa, esibita durante le processione nei paesi del sud, perché il nero esprime una forma di adeguamento al mondo sotterraneo e silenzioso dei defunti. Nero come la prima istanza alchemica: la nigredo, in cui la materia si dissolve, putrefacendosi e poi evolvendosi, perché  da ogni morte si ricrea una vita. Lutto significa lugere, cioè piangere, perché i morti si piangono e si ricordano, come i parenti e gli amici morti che si conservano nell’album di famiglia, e la cui presenza nelle fotografie esorcizza in parte l’angoscia e il rimorso che proviamo per la loro scomparsa, cosi le fotografie di rioni ora sventrati, di luoghi rurali sfigurati e inaridititi, esprimono il nostro fragile rapporto con il passato. Viene così a configurarsi quell’importante concetto della fotografia intesa come immobilizzazione del tempo , dove l’immagine che produce la morte non fa altro che conservare la vita.
I romani indicavano il nero con due aggettivi: niger e ater. Niger indica qualcosa di funebre che evoca l’idea di morte, di disgrazia, ater invece significa nero, triste, indicando così un’idea morale di terrore, di disgrazia,  ed è spesso impiegato come melas, nel senso di avvelenamento, velenoso.
Perché la morte è velenosa, come affermava Edvard Munch nei suoi scritti autobiografici, ed è  velenosamente lenta come i tempi di esposizione di alcuni frammenti fotografici esposti in questa sede che creano immagini parzialmente o totalmente in moto.
Nel 1958 Ernesto De Martino pubblica: Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre al pianto di Maria, complessa indagine antropologica che pone l’accento sulla morte sentita come “scandalo”, perché segna il sopravvento della natura sulla cultura, imponendo la ricerca di forme di riscatto socio-culturale. De Martino di fronte tale problematica chiarisce che per quanto grande possa essere la perdita, subito si impone in noi, il compito di evitare tale mancanza. Il rischio di essere polarizzati nella situazione luttuosa  costituisce la seconda decisiva morte che l’evento luttuoso può trascinarsi dietro.  Così la morte impone  alla cultura umana l’obbligo di elaborare modalità rituali in grado di operare una prima presa di distanza culturale dall’evento luttuoso, così da frenare, nell’azione del rito il rischio di una reale perdita della presenza individuale e collettiva. La morte inoltre, viene a costituire così, una lacerazione di un compatto tessuto sociale, fatto di status, ruoli e diritti. Solo attraverso i processi di cordoglio e di lutto vengono a coalizzarsi da un lato l’insieme di rappresentazioni collettive, e di gesti simbolici – ctnoci, ricche nelle ricerche etnologiche e, dall’altro lato, la morte, viene ad inserirsi con tali modalità nel linguaggio egemonico dell’arte, dove lo studio antropologico e l’operazione artica si fondono.
Nell’introduzione di questa articolata indagine, De Martino cita un passo dei Frammenti di Etica di Benedetto Croce: «...che cosa dobbiamo fare degli estinti, delle creature che ci furono care e che erano come parte di noi stessi? “Dimenticarli”, risponde , se pure con vario eufemismo, la saggezza della vita. “ Dimenticarli” conferma l’artica. “Via dalle tombe!”, esclamava Goethe e  in coro con lui gli altri spiriti magni. E l’uomo dimentica. Si dice che ciò è opera del tempo, ma troppe cose buone, e troppo ardue opere si sogliono attribuire al tempo, cioè a un essere che non esiste. No: quella dimenticanza non è opera del tempo, è opera nostra che vogliamo dimenticare e dimentichiamo (…). Ma con l’esperienza il dolore, nelle varie forme di celebrazione e culto dei morti, si supera lo strazio, rendendolo oggettivo. Così cercando che i morti non siano morti, cominciamo a farli effettivamente morire in noi.»
Allora il nero come simbolizzazione del lutto e della morte diviene plumbeo frammento mnemonico perché dimenticare equivale a soffocare quel dolore e quella attesa che dalla morte ci riporta pienamente nel bianco della vita.
    Fabio Petrelli
 



 
 

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